User Experience Research Lab: alla ricerca di emozioni

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Scopriamo con l’aiuto di Stefania e Lorena – rispettivamente CDO e UX Research Manager– come funzionano i test di User Experience condotti nel nostro Lab.

Riconoscimento delle emozioni facciali, sensori che rilevano la sudorazione, tracciamento dello sguardo, Elettroencefalogramma…sembra quasi una lista di esami medici, ma cos’è di preciso il Lab? Cosa succede in questo luogo misterioso?

Lorena – Beh, in effetti alcune di queste tecnologie sono utilizzate anche in ambito sanitario. Paura? No, scherzi a parte, il Lab è tutt’altro che misterioso e di sicuro non è un centro di sperimentazione medica.
È semplicemente una struttura molto agile, neutrale e informale, che permette di effettuare diversi test di UX coinvolgendo utenti reali, ovvero consumatori del prodotto “sotto esame” (un sito, un’app, un servizio o un prodotto fisico), ma anche prospect potenzialmente interessati.
La particolarità del Lab non è solo quella di incontrarsi face to face con l’utente ma soprattutto di fare ricorso a tecnologie sofisticate, appartenenti alla sfera del cosiddetto neuromarketing, per analizzare l’esperienza di interazione con il prodotto.

Stefania – Lorena è specializzata in psicologia applicata alla ricerca sociale e di marketing, perciò mi affido a lei e al resto del team dedicato per la parte analitica del progetto; la mia “deformazione professionale” più pubblicitaria mi porta sicuramente a dire che siamo molto orgogliosi del Lab. Lo sentiamo come una nostra creatura, un elemento distintivo rispetto ad altre agenzie che magari offrono gli stessi servizi, ma appoggiandosi a strutture esterne.
Averlo a disposizione internamente, significa inoltre che i nostri stessi clienti lo possono utilizzare con la massima libertà, come se fosse il proprio laboratorio di ricerca.
Per quanto riguarda ogni specifica ricerca, forniamo sempre un report avanzato, ma il cliente in ogni caso può assistere alla fase operativa, se vuole. Il Lab è composto infatti da due ambienti: il laboratorio vero e proprio e una sala osservazione separata, da dove guardare attraverso monitor come si svolgono i test.
Lo spirito “commerciale” mi porta poi a evidenziare che per noi è facile e veloce organizzare una sessione di ricerca. Possiamo dire che in circa 10 giorni dall’incarico siamo in grado di partire.

Nel Lab gli utenti si mettono a nudo e le loro emozioni diventano trasparenti. Che tipo di approccio hanno normalmente ai test effettuati?

Lorena – In tutti questi anni abbiamo notato che le persone incontrate nel Lab sono incuriosite, più che timorose: fanno domande, si interessano, e a noi spetta ovviamente spiegare con chiarezza e semplicità come si svolgono e a cosa servono i test, così da eliminare i preconcetti e le idee sbagliate… Ad esempio che non siamo in grado di leggere nella loro mente, o che non li manipoliamo per carpirgli informazioni…
Per noi è fondamentale essere certi che tutti si svolga sul piano della massima consapevolezza e trasparenza: questo scambio aperto tranquillizza gli utenti e li predispone a essere collaborativi, agevolando il nostro lavoro. Un ulteriore garanzia di sicurezza per loro è poi data dal fatto che il nostro team di ricercatori è composto interamente da specialisti in ambito psicologico.

Come vengono reclutati i volontari?

Stefania – Prima di tutto è necessario capire insieme al cliente finale che ci commissiona la ricerca quali sono i soggetti in target, seguendo i criteri socio demografici individuati: genere, età, livello di istruzione, digitalizzazione, ecc. Poi si passa al reclutamento vero e proprio, passaggio fondamentale per il buon esito della ricerca. Normalmente affidiamo questa fase a un reperitore professionale che ci presenta le persone rispondenti ai requisiti, ma cerchiamo comunque di tenere a disposizione qualche riserva, perché alcuni soggetti potrebbero rivelarsi non adatti.
A volte capita ad esempio che qualcuno abbia “sopravvalutato” il suo livello di digitalizzazione, oppure che non sia in grado di restituire feedback adeguati.

Le reazioni dell’utente nel Lab sono sempre attendibili?

Lorena – Noi cerchiamo sempre di mettere a proprio agio l’utente, perché se dobbiamo misurare il suo livello di stress e questo risulta elevato per fattori ambientali non legati al prodotto, l’esito sarebbe fuorviante.
Riportare l’utente in una condizione di comfort con qualche piccolo accorgimento è fondamentale per raccogliere dati utili. Per questo i primi minuti di test non vengono mai presi in considerazione, perché ci servono per creare un clima rilassato con il soggetto e costruire la sua baseline su parametri individuali.
… A raccontarlo così sembra quasi un interrogatorio come quelli che si vedono nei film polizieschi, ma in realtà si svolge tutto in modo molto naturale.
Una semplice curiosità a titolo di esempio: quando il test GSR per rilevare la traspirazione della pelle viene effettuato in inverno, le persone si presentano spesso con le mani molto fredde e necessitano perciò di un periodo di acclimatamento.

Quali sono i punti di forza dei test effettuati nel Lab?

Lorena – Il più grande punto di forza di questo metodo di ricerca è l’oggettività, perché i dati che le tecnologie ci mettono a disposizione non sono “intaccati” dal pensiero razionale, ma corrispondono a un comportamento spontaneo.
Spesso infatti non siamo del tutto consapevoli di alcune nostre emozioni, non riusciamo ad esprimerle correttamente e prendiamo le decisioni con una sorta di automatismo.
I nostri test ci permettono invece di rilevare gli atteggiamenti più inconsapevoli, svelandoci un lato del consumatore che lui stesso non saprebbe spiegare a parole.
In tutto ciò, non possiamo dimenticare che in fondo restiamo anche esseri razionali, perciò è utile integrare la tecnologia con metodi di ricerca più tradizionali
In questo modo riusciamo a mettere insieme una fonte di dati più emotiva con una seconda più controllata: punti di vista diversi che si integrano e arricchiscono la nostra conoscenza.

Stefania – Il valore aggiunto dell’oggettività va inteso anche in un altro senso.
In un normale rapporto tra produttore e consumatore normalmente da una parte c’è l’utente e dall’altra il brand. Spesso però la visione che quest’ultimo ha dei suoi prodotti è troppo aziendale, lontana dall’esperienza del destinatario finale.
Noi, con i nostri test, aiutiamo il cliente posizionandoci come una terza parte neutrale, una sorta di arbitro imparziale in grado di avvicinare due angolazioni differenti: il momento di incontro tra le aspettative dell’azienda per il proprio prodotto e le sensazioni che vengono realmente percepite.
Naturalmente per ottenere risultati validi c’è la necessità di professionisti preparati, come quelli del nostro team, in grado di leggere e interpretare i dati in modo corretto.

Qualche curiosità legata alle tecnologie impiegate?

Stefania – Alcune situazioni difficili da individuare in fase di reclutamento ci possono in effetti causare qualche difficoltà di fronte all’utente.
Mi viene in mente quella volta in cui non riuscimmo a effettuare il test con i tracking glasses su una ragazza, perché era troppo truccata e le microcamere degli occhiali non erano in grado di rilevarne i movimenti oculari.
Un altro caso piuttosto curioso che ci ha impedito l’impiego dei glasses è stato quello di un soggetto con forte strabismo… che imbarazzo!
Una curiosità più tecnica riguarda la nascita del cosiddetto hamburger menu, quelle tre brevi linee collocate in alto a sinistra nei siti – soprattutto mobile – da cui espandere le voci del menu completo.
Oggi tutti lo conosciamo bene e ci viene naturale cliccarlo, ma quando venne testato per la prima volta fu un terribile insuccesso perché la maggior parte degli utenti non comprendevano il significato e la funzione di quell’icona.
In quel caso intervenne persino l’Agenzia per l’Italia Digitale, imponendo di esplicitare la scritta “menu” sotto le linee, perché altrimenti non riconoscibili.

Lorena – A volte questi test permettono di ribaltare teorie consolidate, mostrando quanto il comportamento di consumo sia sfaccettato.
Qualche tempo fa, ad esempio, sembrava un dato sedimentato che nei punti vendita della grande distribuzione i prodotti da spingere andassero collocati ad altezza occhi.
Tramite la simulazione del percorso d’acquisto all’interno di shopper lab realizzati ad hoc per riprodurre fedelmente l’ambiente di un supermercato reale, è stato invece scoperto che questo non sempre è vero.
Noi stessi, effettuando più di 10.000 registrazioni con i glasses, siamo riusciti a capire che l’atteggiamento dei consumatori cambia a seconda della tipologia di prodotti. Ad esempio, di fronte allo scaffale dei detersivi è più comune guardare prima i flaconi più grandi, posizionati in basso, e la cui visibilità da lontano risulta migliore.

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